Sensi di colpa

Sensi di colpa

15 ottobre 2010

Stamattina di nuovo sveglia alle 4.45, bus alle 6 da Janakpur, direzione Karakhabita, al confine con l’India. C’era già un sacco di gente per strada, alle 5 di mattina. Lunghe file per entrare nei templi.

8 ore per arrivare a Karakhabita. Attraversando villaggi poverissimi. Appena usciti dal paese la gente vive nelle capanne. Tra le 6 e le 8 di mattina i campi erano costellati di gente accovacciata che faceva la cacca. Bene, concime naturale. Alcuni di loro erano lungo corsi d’acqua, ma la maggior parte erano proprio in mezzo a campi. Boh. E strano che stavano lì per diversi minuti, come ad aspettare che lo stimolo arrivasse. Forse non hanno tempo per fermarsi durante la giornata e devono farla per forza la mattina? O abitudine? Non saprei.

Ho dato una banana a un bimbo seduto vicino a me. Quando sono scesi dal bus la nonna ha buttato la banana. ??? Ci son rimasta di merda! Io pensavo di fare una cosa carina, e le banane son così buone, perché? l’hanno buttata? Lo so che costano pochissimo qui e se le possono permettere anche loro, ma è pur sempre cibo, no? Boh. Forse li ho offesi con un regalo così da poracci o forse li ho offesi proprio col regalo. 

C’era una famiglia con tre bambini e il padre sperava di pagare un prezzo ridotto per i figli. Sono poverissimi, mi diceva il controllore, ma lui non può rimetterci i soldi del suo capo. Mi son sentita così in colpa! Io con la mia macchina fotografica da 500 euro, e loro che discutevano per un euro di bus. Io con i miei scarponi da 200 euro, e loro non si possono permettere neanche delle ciabatte da 1 euro. Padre e figlio mi fissavano con due occhi enormi pieni di tristezza. Avevo preparato una banconota da dare loro quando scendevano, ma non sono riuscita a dargliela. Se anche ci fossi riuscita, cosa avrei risolto? Avrebbero magari potuto comprare del riso, ma è altro di cui hanno bisogno. Un lavoro, per cominciare. Boh, ci devo pensare. Per la prima volta mi sono sentita in colpa per essere nata in Italia.

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Rough Road 2

Rough Road 2

7 Giugno 2012

Pensavo che il pericolo più grande che potessi correre qui in Tanzania fosse cadere dentro un tombino (non hanno coperchi) e rompermi una gamba, soprattutto quando devo prendere il bus alle 5 di mattina che è ancora buio (non c’è illuminazione per le strade, ma per fortuna c’è la luna piena in questi giorni). E invece ho scoperto che c’è qualcosa di molto più pericoloso: viaggiare su un minibus per le strade non asfaltate.

Il viaggio da Songea a Masasi è stato un incubo. Il mio posto era in fondo, nell’angolo, dove solo dei bambini sarebbero stati comodi. Le mie ginocchia urtavano il sedile davanti e non potevo mettermi in nessun’altra posizione perché non c’era altro spazio. Eravamo stipati come galline, e il corridoio era stato riempito di valigie, sacchi di riso e mais, scatole. Quindi ogni volta che dovevo uscire per fare la pipì (non potevo tenermela per 11 ore, nonostante cercassi di bere il meno possibile) dovevo scavalcare tutti i sedili per arrivare al mio posto. Dopo circa un’ora che eravamo per strada, con il bus che andava a una velocità da paura, tra salti e curve, abbiamo sbandato in una maniera paurosa. Credevo si sarebbe ribaltato. Ci fermiamo, e i 4 aiutanti saltano giù e si precipitano verso il retro del bus. Ho subito pensato che avessimo investito qualcuno e stessero andando a soccorrerlo. Invece lì in mezzo alla strada c’era il ragazzo che sfortunatamente si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato e hanno cominciato a riempirlo di calci e pugni. Dopo un po’ il malcapitato è riuscito a liberarsi e scappare, ma ne ha prese un bel po’. La gente sul bus sembrava soddisfatta. Il bruto che aveva quasi provocato un incidente era stato giustamente punito. Io ero sotto shock.

Siamo ripartiti, più veloci di prima. Allora mi son messa a dormire. O a far finta. Preferivo non vedere quel che succedeva intorno a me. Ho aperto il finestrino, per avere una via di fuga in caso ci fossimo trovati con le ruote per aria, e ho appoggiato la testa sul sedile davanti. In quella posizione stavo anche un po’ più comoda perché il bacino stava più indietro e le ginocchia mi dolevano leggermente meno.

A Tunduru, più o meno metà strada, un po’ di gente è scesa. Molta di più è salita. Quando son tornata sul bus, dopo la pausa-pipì, ho trovato un borsone al mio posto. Subito ho pensato che fosse una fortuna, perché mi ci potevo sedere sopra e lasciare le gambe libere e comode sopra il sedile di fianco. Ma un tizio è salito poco dopo che siamo partiti (è entrato dal finestrino perché dalla porta non passava un ago, anzi due tipi vi erano appesi fuori) e si è seduto dietro con noi. Addio spazio per le mie gambe. Ho dovuto tenere le gambe piegate sul borsone per le restanti 5 ore, solo quando ci fermavamo le stiravo fuori dal finestrino. Non ce la facevo più. Sono arrivata a Masasi con la testa che scoppiava. Ho finito il pacchetto di biscotti, mi son presa le pastiglie per la malaria e alle 7 ero a letto.

Il giorno dopo un altro microbus, però la strada era asfaltata e anche se correva come un pazzo pure questo autista, sembrava leggermente meno pericoloso. Poi le mie gambe stavano abbastanza comode, quindi non mi tomentava più di tanto. Ma ero ansiosa di arrivare a Mtwara per potermi finalmente riposare e invece ci siamo fermati 3 volte a fissare non so cosa sotto il bus e le 4 ore che dovevano bastare si son trasformate in 6. Vabbè? Alla fine a Mtwara ho trovato un posto super tranquillo e mi son ripresa alla grande.  

Rough Road

Rough Road

June 3, 2012

7am della domenica e le strade sono piene di gente. Stanno andando a Messa, chi a quella Luterana, chi a quella anglicana. Dalla Luterana esce della bella musica. E gli strillini del matrimonio (vedi Dar Es Salaam). lo sono al mio bar preferito che faccio colazione. Da Dodoma fino a Iringa ci sono due strade. Una che fa il giro largo via Morongoro, tutta asfaltata. E una che chiamano scorciatoia, che va dritta fino a Iringa, ma non è asfaltata. Costa la metà andare per la scorciatoia, e questo basta a convincermi. Alle 7.30 devo essere in stazione per l’appello. Il bus però non parte prima delle 8.30. 7h25 Cavoli, ho già sudato. Deve fare piuttosto caldo qui durante il giorno. Sono 270 km fino a Iringa, e ci vogliono 8 ore o più.

9h46 Altri 219 km. Ho fatto bene a prendere la scorciatoia. Si va piano tra le campagne e i villaggi di case rosse. MLONA si chama questo paese. La corriera è un rottame. Gli interni sono coperti di polvere rossa, ci sono buchi dove una volta c’erano bottoni, per accenderla basta connettere due fili, il contachilometri e altri strumenti non funzionano, il cambio ogni tanto si inceppa, ma l’autista conosce la sua creatura e possiamo stare tranquilli. Stanno costruendo una nuova strada per collegare Dodoma e Iringa. Per farlo hanno sradicato un sacco di piante secolari (o perlomeno così sembra dalla dimensione dei tronchi). Il rullo per spianare e altri macchinari sono di fabbricazione cinese. L’autista fa mille cose mentre guida. Chiama e scrive da due cellulari diversi, controlla i conti dei passeggeri, beve, mangia, conta soldi, ritira biglietti, impartisce ordini. Ma mi ha fatto sedere davanti da dove posso controllare tutto, mi sta simpatico. Hanno barattato dei pomodori con un po’ di latte di capra portato dai bambini dei villaggi. Uno degli aiutanti del bus è proprio bello. Sporco e senza mutande ma sorridente e bello. A un altro villaggio hanno comprato due cosce di capra, direi dalle dimensioni. Le hanno appese al tettuccio senza plastica o altri contenitori, e son lì che penzolano sopra la testa dell’autista. Il bus è sempre strapieno. Non si può chiamare un viaggiare comodi. E per fortuna io sono seduta! Forse avrei dovuto pagare 0,30€ per il sacchetto per coprire lo zaino. Sono curiosa di vedere come sarà.

Uno dei controllori ha comprato tre galline, vive. Le mette nel bagagliaio. Ah no, le porta su con noi. L’appalto per la costruzione della strada deve essere stato vinto da una compagnia cinese perché ogni tanto si vedono occhi a mandorla sotto un cappello di paglia e vestiti puliti. Devono essere gli ingegneri che controllano i lavori. Siamo passati anche vicino al quartier generale dei cinesi. Case nuove e bianche con i condizionatori e macchine giganti in cortile; stonano un po’ se paragonate alle case di terra e legno, senza acqua né elettricità, a pochi metri di distanza.

16h30 Povere galline. Danno qualche segno di vita solo quando qualcuno ci pesta sopra. Mi passa la voglia di mangiare carne. E’ salita una ragazza di origine indiana. Si è seduta vicino a me e si è messa a leggere un libro in inglese. Fa un po’ la principessina, si scoccia se i poveri disgraziati che sono in piedi la toccano o se per sbaglio le pestano i piedi. Ah, è la sorella dell’autista. Mi dà alcuni suggerimenti su cosa fare a Iringa. Dice che non c’è la piscina purtroppo. A Dodoma sì. Sono stata a vederla? Beh, veramente visitare la piscina non era tra le mie priorità. Ma evidentemente per loro sì. Anche a Moshi un tipo mi aveva portato a vedere la loro piscina tutto orgoglioso. In effetti  in un paese dove l’acqua è un bene prezioso, una piscina deve avere un significato diverso.

19h00 Siamo arrivati a Iringa verso le 17.30. Ho mangiato una pannocchia lessa per pranzo, ho un po’ fame ora. Sto aspettando la solita frittata con patate. Domani devo assolutamente andare in un ristorante decente e mangiare qualcosa di diverso. Mi piace Iringa. E’ tranquilla, con belle case, gente simpatica e ospitale. Sono in un albergo un po’ fuori, sembra tranquillo. Spero di riuscire a dormire bene.